La testimonianza della nostra volontaria che davanti al dramma della pandemia ha deciso di uscire allo scoperto e diventare parte attiva della Protezione Civile.
Scritto da D. Melluso (volontaria)
19 febbraio 2021. Freddo pomeriggio da zona arancione.
Piazzale antistante la sede della Società Nazionale Salvamento.
Per puro caso incrocio il presidente dell’associazione, caro amico da tempo.
Faccia stanca e tirata di chi indossa una divisa senza gradi sulle controspalline, animato solo da spirito di “servizio”.
Lo guardo, mi guarda. Percepiamo un comune smarrimento misto alla paura di un nemico invisibile.
Istintivamente senza ragionare sulle parole dico: VOGLIO ESSERCI ANCHE IO. PRENDETEMI CON VOI.
Mesi ad accarezzare il pensiero, senza peraltro avere fino a quel momento l’audacia per concretizzarlo. E poi improvvisamente nessun dubbio o esitazione. Da lì un percorso da cui non ho più pensato di tirarmi indietro.
E allora, ottenuti i dovuti nulla osta, anche io ho potuto indossare la mia divisa. Ho messo sul petto lo stemma marinaresco della mia Associazione, sul braccio del cuore i colori della Patria e sul destro quelli della Protezione Civile.
Iniziava così quella che considero una delle esperienze più significative della mia vita. Nel periodo forse tra i più bui.
E cominciava proprio all’ HUB vaccinale della mia città. Non dimenticherò mai le sensazioni del primo giorno di servizio. Le emozioni forti e a tratti contrastanti, dalla “vestizione”, all’impatto di trovarsi, in una palestra enorme, davanti agli occhi spauriti e al tempo stesso fieri di quei nonnini, che si affidavano a me perché rassicurandoli, li preparassi e li accompagnassi verso il farmaco della salvezza.
Non nego di aver sentito, a volte, insinuarsi prepotente la paura del virus, che poteva nascondersi anche in quel luogo sacro e che obbligava a tenere le distanze a me poco congeniali.
Mi guardavo spesso intorno e avevo costantemente la percezione che ogni essere umano in quel centro vaccinale avesse come motivazione il preservare la vita. Quella propria e quella altrui.
In tutte le ore passate imbrigliata in un camice lungo fino ai piedi, col volto coperto, in tutti i 12 week end trascorsi con i miei nonnini, con i colleghi, coi medici e gli infermieri, ho compreso che l’umanità non era finita. Tutt’altro!
Perché dietro quelle maschere e quelle visiere, dietro mani che non potevano toccare, c’erano le voci e gli occhi che ridevano, che rivelavano coraggio.
Era quell’umanità che nessun virus e nessun provvedimento poteva relegare del tutto. Forse era semplicemente la forza della vita.
In quella palestra prima e in seno alla mia associazione nel tempo, ho acquisito il senso del rischio e tuttavia la disponibilità ad affrontarlo. Sono venuta a patti con la paura, riconsiderando le mie risorse e i miei limiti. Ho imparato a far spezio dentro di me all’altrui fragilità. Al contempo ho curato la mia.
Perché siamo individui unici nella nostra condizione di esseri umani.
Chi come me ha sentito di essere “chiamato al servizio” può raccontare esperienze che restituiscono, una dopo l’altra, l’impressione di una corale testimonianza sulla vita che non si arrende.
Da parte mia, nutro reale gratitudine verso la SNS, la mia associazione, il cui motto da 150 anni è “la sicurezza della vita per terra e per mare”.
Una comunità fatta di persone che non sono soltanto “soccorritori.” Sono uomini e donne per i quali la priorità è condividere e trasmettere la “cultura delle emozioni”. Dove ho imparato che il volontariato è un’esperienza collettiva, in cui lo sforzo e il sacrificio individuale si esprimono con discrezione per una finalità più elevata.
Dove ho ritrovato e rafforzato quel sentimento che si rinnova ogni giorno come puro senso di appartenenza.
